Pagina 6 di 9 umanesimo aperto Vivo, animato dal desiderio della felicità. Felicità consistente nel godimento di tutto il mio bene. Bene, però, che soddisfa tutte le mie aspirazioni, solo se risponde all'apertura del mio pensiero, dovendosi risolvere nel possesso intellettuale dell'essere: ogni altro possesso è nettamente inferiore alla mia vera capacità ricettiva. Io parlo dell'Essere assoluto, ossia in atto, necessario, unico, infinito, il solo che accolga in sé tutto il pensabile e possa quindi placare l'immensa avidità del mio pensiero.
Ora, se Esso non fosse reale, vana sarebbe anche la mia brama della felicità, ossia resterebbe inspiegabile ed anzi contraddittoria l'apertura del mio pensiero all'essere: dovrei supporre l'intrinseca irrazionalità della ragione, e, per conseguenza, della stessa vita umana e dell'intero universo, che solo nella ragione si conosce e giustifica, si riscatta e sublima.
Perciò: o affermare Dio quale Verità-Bene sussistente, o negare la ragione umana; una ragione che, per ipotesi, sarebbe assurdamente portata alla ricerca di un finito, incapace di saziarla; e stimolata al possesso di un Infinito, inafferrabile perchè inesistente.
volontà non autonoma
Sono libero. Ma il mio arbitrio è subordinato alla mia volontà del bene. Volontà che si rivela finalizzata indipendentemente da me, perchè il bene a cui tende è reale solo se risponde ad esigenze della mia natura, rispetto alle quali sono passivo, come lo sono rispetto alla natura da cui scaturiscono: non posso non essere tutto e solo quel che sono. Quale il fondamento ultimo del mio naturale finalismo, quindi del buon uso dell'arbitrio, della rettitudine dei miei atti? - Se finalizzare spetta al pensiero, e se il mio pensiero è passivo riguardo al finalismo della mia natura, devo riconoscere che esso deriva da un Volere assolutamente autonomo, illuminato da una Mente ordinatrice, origine prima della mia natura: appunto Dio, suprema Legge della mia vita.
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